La scelta della legge applicabile al contratto costituisce uno degli aspetti più delicati per la redazione di un contratto internazionale.
Le norme cui fare riferimento sono le norme di diritto internazionale privato, cd. conflict rules, le quali consentono di stabilire qual è il diritto (o i diritti) applicabile al contratto. Queste, tuttavia, variano da ordinamento ad ordinamento (e quindi da paese in paese), per cui la legge che in definitiva sarà applicabile al contratto sarà diversa a seconda del Giudice che per primo verrà adito, in quanto quest’ultimo effettuerà la suddetta determinazione in base alle norme internazional-privatistiche del suo ordinamento giuridico.
E in base al diritto applicato, cambierà anche il risultato del giudizio.
In genere l’annosa questione della determinazione del diritto applicabile è demandata ai giudici (o agli arbitri) al momento dell’insorgere della controversia.
Ma prima ancora di tale momento, è possibile controllare (od evitare) l’applicazione del diritto di un Paese attraverso l’esplicita previsione, all’interno del contratto, della legge che regolerà il contratto. Ciò avviene di norma tramite l’incorporazione, nel contratto internazionale, di un negozio giuridico (pactum de lege utenda), il quale si traduce in sostanza in una clausola la quale espressamente stabilisce che il contratto “è interamente sottoposto al diritto […], che ne regola la conclusione, esecuzione e cessazione, ed in base al quale esso sarà interpretato, anche al fine della risoluzione delle controversie da esso nascenti”.
La maggior parte dei Paesi al mondo, infatti, ammette la possibilità che le parti di un contratto internazionale scelgano liberamente la legge ad esso applicabile. Tale libertà di scelta del diritto che regolerà il contratto è a sua volta espressione di un principio, quello dell’autonomia delle parti, il quale è ampiamente riconosciuto sia dalle legislazioni e codici dei principali Paesi di civil law, che da quelli di common law.
Possiamo, a quest’ultimo proposito citare il Regno Unito e degli Stati Uniti. Nel primo ordinamento infatti, il principio di libertà di scelta della legge applicabile al contratto è riconosciuto dal “Contracts (Applicable Law) Act” del 1990, che ha ratificato la Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, siglata dal Regno Unito il 7 dicembre 1981, ed il quale sostituisce a partire dal 1° aprile 1991 le regole di determinazione della legge applicabile ai contratti sviluppate dal common law.
Per i contratti conclusi prima di tale data, continuano pertanto ad applicarsi le regole del Common law. Il diritto inglese riconosce pertanto l’autonomia delle parti nella scelta della legge applicabile al contratto, anche se la legge individuata non presenta alcuna connessione con quest’ultimo purchè, come affermato nella decisione Vitafood Products v. Unus Shipping Co. (1939), “l’intenzione espressa costituisca manifestazione di buona fede e non vi siano ragioni fondate su motivi di ordine pubblico che impediscano tale scelta”.
Nell’ambito dell’Unione Europea, la materia della legge applicabile al contratto è regolata dalla Convenzione di Roma (1980) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, la quale detta regole uniformi a livello europeo sui conflitti di legge in materia di contratti, allo scopo di prevenire il fenomeno del cd. “forum shopping”. In Italia, l’art. 57 della legge 31 Maggio 1995, n. 218 di “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato” rinvia espressamente alla Convenzione in questione, stabilendo che i contratti con elementi di internazionalità sono disciplinati “in ogni caso” dalla Convenzione di Roma del 1980 del 19 Giugno 1980.
L’art. 3 della Convenzione prevede, in linea di principio, che le parti siano libere di scegliere la legge applicabile al loro rapporto. Sebbene non venga richiesto che tale scelta sia espressa in forma scritta, è sempre opportuno farlo, in quanto, in caso contrario, per essere fatta valere, dovrà risultare in modo ragionevolmente certo dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso.
In assenza di scelta della legge applicabile, l’art. 4 della Convenzione di Roma stabilisce, come criterio sussidiario, l’applicazione, al contratto, della legge del paese con il quale il contratto presenta il “collegamento più stretto” (art. 4.1). Il successivo comma aggiunge che, il collegamento più stretto, si presume, si abbia con il Paese in cui la parte che deve fornire la “prestazione caratteristica” ha, al momento della conclusione del contratto, la propria residenza abituale o la propria amministrazione.
Un altro aspetto della convenzione di Roma, tuttavia, criticato dai giuristi di common law è dato dalla prescrizione contenuta all’art. 3 (2), in base alla quale le parti hanno la possibilità di modificare, di comune accordo, la legge precedentemente scelta come regolatrice del contratto, o di effettuare tale scelta anche in un momento successivo alla conclusione del contratto. La common law, in relazione a quest’ultimo aspetto, assume una posizione critica, dato che una volta effettuata la scelta del diritto applicabile, ritiene che non sia più possibile modificarla.
Non sempre, tuttavia, le parti riescono ad accordarsi sulla legge da applicare al contratto. Sempre più spesso accade, infatti, che nei contratti conclusi tra parti di nazionalità diversa, i contraenti decidano di assoggettare il loro accordo agli usi del commercio internazionale, ossia alla cd. “lex mercatoria”, un corpo “neutro” di regole a carattere extrastatuale, emerso prevalentemente dalla prassi, ed in particolare dalle decisioni di alcune importanti camere internazionali di arbitrato, il quale tende ad escludere l’applicazione delle leggi nazionali, proponendosi come soluzione alternativa alle stesse (da qui, appunto, la sua “neutralità”).
Questa soluzione è però efficace solo se viene accompagnata dall’inserimento nel contratto di una clausola che affidi ad uno o più arbitri la gestione di eventuali controversie insorte tra le parti, dato che questi ultimi sono più inclini ad applicare la lex mercatoria dei giudici, i quali viceversa tendono, invece, a privilegiare l’uso delle norme di diritto internazionale privato dei propri ordinamenti nel determinare la legge applicabile al contratto.
Si è spesso verificato il caso in cui i giudici o gli arbitri hanno ritenuto che gli elementi contenuti nel contratto fossero insufficienti al fine di ricavarne una scelta della legge applicabile ad opera delle parti.
Nella causa “Yoshizawa ed altri c. Deutsche Lufthansa AG”, il Tribunale di Tokio si trovò ad esempio ad affrontare il problema della determinazione della legge applicabile ad un contratto di lavoro internazionale. Nel caso in questione, la compagnia aerea Lufthansa aveva concluso un contratto di lavoro con alcuni lavoratori di nazionalità giapponese, affinché fossero destinati ad una sua sede secondaria a Tokio. All’interno del contratto di lavoro, non si faceva alcun cenno su quale fosse la legge applicabile a questo.
I dipendenti della sede in Giappone erano stati assunti mediante regolari contratti di lavoro stipulati a Francoforte, i quali prevedevano che la retribuzione fosse erogata in marchi tedeschi. Nel 1947, la Lufthansa decise di corrispondere un compenso aggiuntivo alla paga base dei dipendenti di Tokio, per allineare il loro livello retributivo con quello dei dipendenti della sede centrale in Germania. Quando, sedici anni dopo, la compagnia aerea decise di interrompere il pagamento di questo compenso extra, gli attori decisero di citarla davanti al Tribunale di Tokio, sostenendo che la legge che regolava il loro contratto di lavoro dovesse essere quella giapponese, essendo collocato in Giappone l’ufficio dove essi svolgevano prevalentemente la loro attività di routine. Il Tribunale distrettuale di Tokio tuttavia ritenne che la sede della Lufthansa a Tokyo giocasse un ruolo secondario nella determinazione della legge applicabile, rigettando la domanda degli attori e concludendo che non vi era, nel caso in esame, alcuna circostanza che consentisse di dedurre una volontà implicita delle parti di assoggettare il contratto al diritto giapponese.
Avv. Barbara Tripi