A distanza di più vent’anni dall’entrata in vigore del D. Lgs 231/2001, resta ancora un vuoto normativo in relazione all’applicazione del Decreto 231 agli enti stranieri. L’art. 4 del Decreto “reati commessi all’estero” si occupa, infatti, di disciplinare solo il caso in cui enti italiani abbiano commesso reati al di fuori dei confini nazionali.
In Questo caso, qualora un ente italiano, per il tramite di soggetti qualificati, realizzi integralmente il fatto di reato in territorio straniero, l’ipotesi è espressamente presidiata dal Decreto tramite il richiamo operato dall’art.4 alla normativa dettata per i reati commessi all’estero dalle persone fisiche, di cui agli artt. 7, 8, 9 e 10 del codice penale.
Ne consegue che, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle disposizioni su citate e dell’ulteriore vincolo che nei confronti dello stesso non si sia già attivata la giurisdizione dello Stato di appartenenza, l’ente collettivo sarà soggetto alla legge italiana e sarà, dunque, onerato della predisposizione di Modelli di Organizzazione e Gestione idonei a prevenire anche la commissione di quei reati derivanti dall’attività d’impresa esercitata fuori dai confini nazionali.
Di contro, la disciplina della norma in parola nulla dice per la fattispecie simmetrica della perseguibilità e sanzionabilità degli enti stranieri per reati commessi in Italia.
Con la sentenza n. 11626 del 11.02.2020, per la prima volta, la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, si è pronunciata sul tema dell’applicabilità della disciplina prevista dal D. Lgs. 231/2001 agli enti stranieri (Il tema era già stato affrontato dalla giurisprudenza di merito nel noto caso dell’incidente ferroviario di Viareggio, Trib. Lucca, sent. n. 222 del 31.07.2017 e CA Firenze, sez. III, sent. n. 3733 del 20.06.2019).
Nel caso di specie, una società di diritto straniero, insieme ad altre, si è vista contestare l’illecito amministrativo ex art. 25 del D. Lgs. n. 231/2001 in relazione a fatti corruttivi in atti giudiziari commessi dai rispettivi legali rappresentanti.
La società di diritto straniero non avente sede legale, né sede operativa in Italia, ha invocato la carenza della giurisdizione italiana, sebbene le condotte contestate fossero state commesse in Italia, sostenendo che, un rimprovero derivante da una “colpa di organizzazione” poteva venire mosso nei confronti di una persona giuridica solo se i fatti contestati si fossero svolti nel luogo ove essa avesse il proprio centro decisionale, sul presupposto che, nel proprio Stato di residenza, non vigeva normativa analoga a quella prevista dal D. Lgs. n. 231/2001. Dunque, la società non avrebbe potuto, comunque, adempiere alle procedure preventive atte ad impedire la commissione di reati fonte di una sua responsabilità amministrativa.
La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, evidenziato come l’art. 1, co. 2 del D. Lgs n. 231/2001 non opera alcuna distinzione tra enti aventi sede in Italia e enti aventi sede all’estero, così che gli stessi sono tenuti ad adempiere alla legge italiana quando operano sul territorio nazionale, conformemente ai principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale previsti dagli artt. 3 e 6 del codice penale, a norma dei quali la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio nazionale e che chiunque commette un reato nel territorio nazionale è punito secondo la legge italiana.
La Corte di legittimità ha poi rammentato come, pur essendo autonoma, a norma dell’art. 8 del D. Lgs n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti derivi comunque dal reato-presupposto, con la conseguenza che la giurisdizione va apprezzata rispetto al reato-presupposto, senza che rilevi che la colpa in organizzazione sia avvenuta all’estero.
Infatti, in caso contrario, verrebbe annullato il principio di eguaglianza, configurandosi una ingiustificata disparità di trattamento tra la persona fisica straniera (assoggettabile alla giurisdizione italiana in caso di reato commesso sul territorio italiano) e quella giuridica straniera (in caso di reato-presupposto commesso sul territorio italiano).
Infine, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha ritenuto privo di fondamento il rilievo operato dalla società straniera secondo cui il riconoscimento di una responsabilità dell’ente straniero, per l’omessa predisposizione di modelli organizzativi conformi a quelli imposti dal D. Lgs. n. 231/2001, determinerebbe un trattamento discriminatorio, obbligando gli enti stranieri ad organizzarsi in ottemperanza alla disciplina italiana anche qualora nel proprio ordinamento non sia prevista analoga disciplina.
La Suprema Corte ha, infatti, ritenuto che la non applicabilità agli enti stranieri degli obblighi di cui al D. Lgs. n. 231/2001 (con conseguente esonero di responsabilità amministrativa) consentirebbe loro di operare sul territorio nazionale senza sobbarcarsi i costi necessari alla predisposizione di idonei modelli organizzativi, configurandosi in tal caso “un’indebita alterazione della libera concorrenza” a discapito degli enti nazionali.
In conclusione, la Corte di Cassazione, ispirandosi alla giurisprudenza di merito nella nota vicenda dell’incidente ferroviario di Viareggio, ribadisce l’applicabilità del D. Lgs. n. 231/2001 ad un ente straniero, anche se privo di sede legale o operativa in Italia, per l’illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussiste la giurisdizione italiana, in quanto anche l’ente è soggetto all’obbligo di osservare la legge italiana a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale e senza che assuma alcun rilievo l’esistenza o meno di norme analoghe al D. Lgs. n. 231/2001 nel Paese di appartenenza.