- 1. Profili preliminari
-
2.
CONDIZIONI DI PROCEDIBILITÀ
- 2.1. Il rapporto di alternatività tra l’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa (art. 696-bis c.p.c.) e la mediazione (d.lgs 28/2010). L’esclusione della negoziazione assistita
- 2.2. La scelta per la mediazione
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2.3.
La scelta per l’accertamento tecnico preventivo e la ratio del “filtro”
- 2.3.1. Segue. Il ricorso introduttivo e la competenza
- 2.3.2. Segue. Il procedimento e l’attività del consulente tecnico
- 2.3.3. Segue. L’obbligo di partecipazione al procedimento e le sanzioni in caso di inosservanza
- 2.3.4. Segue. I possibili esiti del procedimento
- 2.3.5. Segue. La necessità di instaurare il processo secondo il rito sommario di cognizione ex artt. 702-bis ss. c.p.c.
- 2.3.6. Segue. L’acquisizione in giudizio della relazione tecnica
- 2.3.7. Segue. L’inosservanza della condizione di procedibilità: conseguenze
- 2.3.8. Segue. Gli obblighi di comunicazione all’esercente la professione sanitaria
Premessa
Profili preliminari
La legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie), nel riformare la materia delle controversie relative al risarcimento del danno prodotto da medical malpractice, ha introdotto novità di carattere processuale di significativa rilevanza e incidenza pratica, che possono essere così sintetizzate:
- introduzione di un doppio “filtro” di procedibilità (accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa ex art. 696-bis c.p.c. e procedimento di mediazione ex d.lgs 28/2010), in via alternativa tra loro su scelta dell’attore;
- necessario esperimento del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. in caso di utilizzo dell’accertamento tecnico preventivo;
- esperibilità dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria ovvero di quella dell’esercente la professione sanitaria, con conseguente litisconsorzio necessario, rispettivamente, della struttura o dell’esercente;
- esperibilità dell’azione di rivalsa da parte della struttura o dell’impresa di assicurazione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, fermo restando il rispetto delle condizioni previste dalla legge;
- esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa da parte del pubblico ministero contabile nei confronti dell’esercente la professione sanitaria dipendente dalla struttura sanitaria pubblica.
La legge 24/2017 è anche intervenuta sulla qualificazione del titolo di responsabilità della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, stabilendo che:
– la struttura risponde a titolo contrattuale (in linea con l’attuale “diritto vivente”),
– l’esercente (inopinatamente rispetto agli ultimi approdi giurisprudenziali) a titolo extracontrattuale, salvo che abbia stipulato un contratto di prestazione d’opera professionale direttamente con il paziente, rispondendo, in tal caso, a titolo contrattuale.
L’onere della prova sarà così per dire più alleggerito per il danneggiato nell’ipotesi in cui questi decida di agire contro la struttura sanitaria, potendo egli limitarsi ad allegare l’inadempimento e il fatto costitutivo rappresentato dal contratto di spedalità, ed un po’ più appesantito nell’ipotesi in cui decida di agire contro l’esercente, avendo egli il più difficile compito di provare, in tal caso, il fatto costitutivo rappresentato dalla colpa o dal dolo.
La riforma del 2017 ha tentato di riportare ordine nel sistema della responsabilità in materia sanitaria e medica, istituendo un cd. “doppio binario”, che vede la struttura sanitaria rispondere a titolo contrattuale ex art. 1218 e 1228 c.c. ed il professionista a titolo extracontrattuale ex art. 2043 cc.
L’esercente in questo modo si vede, almeno sulla carta, più protetto, date le maggiori difficoltà sul piano probatorio connesse alla azione extracontrattuale eventualmente promossa nei suoi confronti dal paziente. Peraltro, anche sul piano penale si coglie l’effetto deterrente del nuovo regime, dovendosi ormai ritenere egli non punibile – sebbene sotto il solo profilo della imperizia – ricorrendo le condizioni previste dal nuovo art. 590-sexies cp. (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), indipendentemente dal grado della colpa.
Il peso sembra essere stato riversato tutto (o quasi) sulla struttura sanitaria e sulle imprese di assicurazione, anche per via della previsione dell’azione diretta esperibile nei loro confronti.
La Cassazione, però, ha meglio definito i limiti dell’attività assertiva richiesta, affermando che l’onere dell’attore non si spinge fino alla necessità di enucleare e indicare specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non-professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario.
Inoltre, partendo da tali premesse, si ritiene che il giudice non sia rigidamente vincolato alle iniziali prospettazioni dell’attore, stante la inesigibilità della individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all’esito dell’istruttoria e dell’espletamento di una Ctu, potendo pertanto accogliere la domanda nei confronti della struttura in base al concreto riscontro di profili di responsabilità diversi da quelli in origine ipotizzati, senza violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
CONDIZIONI DI PROCEDIBILITÀ
Il rapporto di alternatività tra l’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa (art. 696-bis c.p.c.) e la mediazione (d.lgs 28/2010). L’esclusione della negoziazione assistita
Il legislatore del 2017, preso atto della scarsa percentuale di successo della mediazione in questa specifica materia, dovuto soprattutto alla frequentissima mancata partecipazione delle strutture sanitarie e delle imprese di assicurazione convocate, ha scommesso su un altro strumento di conciliazione, il cd. accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, disciplinato dall’art. 696-bisc.p.c., ponendone il relativo esperimento in via obbligatoria e preliminare al processo, ma allo stesso tempo in alternativa rispetto alla mediazione.
Entrambi gli istituti svolgono, sia pure parzialmente, la medesima funzione, perseguendo entrambi finalità conciliative e deflattive e l’efficacia dell’accordo di conciliazione ex artt. 11 e 12 d.lgs 28/2010 non presentia differenze rispetto a quella dell’accordo raggiunto all’esito della consulenza tecnica preventiva, potendosi entrambe apprezzare sul piano negoziale ai sensi dell’art. 1372 cc, sul piano esecutivo ai sensi dell’art. 474, comma 2, n. 1 e comma 3, c.p.c. e sul piano dell’idoneità a costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale per esplicita previsione di legge.
Altri profili di affinità possono poi cogliersi sul piano delle agevolazioni e degli incentivi fiscali e nella presenza di un terzo equidistante tra le parti non chiamato ad emettere alcuna decisione.
Sussistano, invero, importanti difformità strutturali tra i due istituti relative, oltre che al tipo di attività svolta dal mediatore e dal consulente tecnico, anche all’approccio da adottare, alle tecniche da utilizzare nella gestione del conflitto, al livello di riservatezza garantita, alla natura del procedimento.
Diversità vi sono poi anche sul piano istruttorio, poiché soltanto la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice può fare ingresso nel successivo processo per il tramite dell’istanza di parte, mentre quella svolta dall’esperto eventualmente nominato nel procedimento di mediazione, secondo una diffusa opinione, può tutt’al più costituire una prova atipica la cui acquisizione al processo dipende dal prudente apprezzamento del giudice.
Sotto quest’ultimo punto di vista, i vantaggi del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. sono innegabili.
Si tratta, quindi, di individuare lo strumento più adeguato al caso di specie, in base agli obiettivi perseguiti (mero risarcimento dei danni e/o soddisfazione personale e di principio e/o condanna “esemplare” e così altri), alla complessità tecnico-giuridica della vicenda, al grado di coinvolgimento emotivo della vicenda umana sottesa.
I due “filtri”, infatti, sono alternativi. Questo non toglie che, esperito infruttuosamente l’uno, possa essere instaurato l’altro. Non c’è, però, alcuna obbligatorietà in questo. L’art. 5, comma 4, lett. c), d.lgs 28/2010, aggiunto dal dl 69/2013, conv. con modif. in legge 98/2013, esclude espressamente che si debba necessariamente avviare il procedimento di mediazione prima di quello di accertamento tecnico preventivo, indipendentemente dalla materia.
Il legislatore, in ogni caso, ha ritenuto di escludere (in via ulteriormente alternativa) l’istituto della negoziazione assistita, introdotta dall’art. 3 dl 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162, che, dunque, nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria, non deve essere obbligatoriamente esperito anche se si tratti di domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro.
La scelta per la mediazione
La ratio
La scelta per la mediazione, invece che per l’accertamento tecnico preventivo, oggi, come e più che nel passato, comporta la preferenza per un percorso collaborativo che prescinda dal piano meramente giuridico o anche soltanto tecnico e consenta alla parte istante di instaurare un canale di comunicazione con la parte convocata (struttura sanitaria, esercente la professione sanitaria) che in precedenza non era stato possibile avviare o che, pur avviato, si era interrotto o che si era sviluppato su piani paralleli incompatibili con la dimensione dell’incontro e della comprensione reciproca.
Occorre poi sottolineare che le liti in materia possono essere soggettivamente molto complesse, poiché, infatti, spesso coinvolgono non soltanto il paziente e il medico o il paziente e la struttura sanitaria o il paziente, il medico e la struttura sanitaria, ma anche le compagnie di assicurazione, nonché, in caso di evento morte, i familiari del defunto. Ne deriva la compresenza di un coacervo di posizioni e interessi non omogenei e, quindi, non agevolmente coordinabili.
A ciò si aggiungano gli indubbi vantaggi connessi alle garanzie di riservatezza e confidenzialità (vds. gli artt. 9, 10, 14 d.lgs 28/2010) e gli incentivi di carattere fiscale che il procedimento di mediazione assicura (vds. gli artt. 17 e 20 d.lgs 28/2010), oltre alle ampie potenzialità esecutive del verbale di conciliazione e dell’allegato accordo ottenibili anche attraverso la sottoscrizione da parte degli avvocati “ove presenti” (vds. l’art. 12 d.lgs 28/2010).
In senso contrario, non lo si può negare, giocano altri fattori, quali l’onerosità del procedimento per scaglioni di importo elevato (vds. art. 16 dm 180/2010, e successive modificazioni) destinata ad accrescersi in caso di nomina di esperti tecnici (vds. l’art. 8, comma 4, d.lgs 28/2010); la non tanto infrequente impreparazione dei mediatori rispetto alla specifica tipologia di contenzioso; le odiose conseguenze in tema di pagamento delle spese processuali in caso di rifiuto della proposta conciliativa e di successiva condanna da parte del giudice ad un importo perfettamente corrispondente a quello indicato nella proposta rifiutata (vds. l’art. 13, d.lgs 28/2010).
Segue. La mancata partecipazione al procedimento e le sanzioni per l’atteggiamento “non collaborativo”
L’art. 8, comma 4-bis, d.lgs 28/2010 stabilisce che «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».
La norma fa discendere l’applicazione delle due sanzioni (l’una operante sul piano istruttorio, l’altra sul piano economico) dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione.
Se il procedimento prende avvio con la presentazione dell’istanza di mediazione presso l’Organismo di mediazione competente e la nomina del mediatore, la prima occasione nella quale può constatarsi l’assenza della parte è certamente il “primo incontro”, fissato «non oltre trenta giorni dal deposito della domanda» ai sensi dell’art. 8, comma 1, secondo periodo, d.lgs 28 cit..
Ricevuta la comunicazione della domanda e della data del primo incontro «con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante», la parte convocata è libera di aderire oppure no, valendo la condizione di procedibilità soltanto per la parte istante.
In caso di adesione, non sono previste particolari forme o termini di “costituzione” dalla cui inosservanza possano scaturire nullità, preclusioni o decadenze, poiché il procedimento di mediazione è del tutto sganciato dalla logica e dagli schemi processuali e governato dalla informalità.
Prima delle modifiche apportate nel 2013, quando il d.lgs 28/2010 non dedicava una disposizione specifica allo svolgimento del “primo incontro” accadeva molto di frequente (soprattutto nelle controversie in materia assicurativa) che, a fronte della comunicazione dell’istanza di mediazione, la controparte scegliesse di non prestare la propria adesione oppure comunque non partecipasse all’incontro, lasciando che quest’ultimo e di conseguenza l’intero procedimento, si concludessero in un nulla di fatto.
L’unica sanzione prevista in caso di mancata partecipazione era costituita dalla possibilità per il giudice di desumere argomenti di prova nel successivo processo ex art. 116, comma 2, c.p.c., disposizione che, unitamente ad altre (in particolare, quelle di cui agli artt. 5 e 13 d.lgs 28 cit.), consentiva di desumere l’esistenza di un vero e proprio obbligo (non di conciliazione, giammai, bensì) di cooperazione imposto dal legislatore alle parti.
Si diffuse, infatti, una prassi, in base alla quale l’Organismo di mediazione, a fronte del rifiuto di aderire al procedimento, si limitava a rilasciare un’attestazione dell’esito negativo del procedimento, senza bisogno di procedere alla nomina del mediatore.
La necessità di tenere il primo incontro, di conseguenza, veniva del tutto meno. La non conformità di questa prassi alla normativa dettata dall’art. 5, comma 1 (testo originario), fu stigmatizzata dal Ministero della giustizia, che nella circolare del 4 aprile 2011 sottolineò il fatto che, ai fini della effettività della mediazione, solo il mediatore designato avrebbe potuto constatare la mancata comparizione della parte invitata e redigere il verbale negativo del tentativo di conciliazione; in mancanza non si sarebbe potuto ritenere assolta la condizione di procedibilità.
Successivamente, il dm 6 luglio 2011, n. 145 ha recepito queste indicazioni, aggiungendo all’art. 7, comma 5, la lett. d), dm 180/2010, nel senso che «nei casi di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, il mediatore svolge l’incontro con la parte istante anche in mancanza di adesione della parte chiamata in mediazione, e la segreteria dell’organismo può rilasciare attestato di conclusione del procedimento solo all’esito del verbale di mancata partecipazione della medesima parte chiamata e mancato accordo, formato dal mediatore ai sensi dell’articolo 11, comma 4, del decreto legislativo».
Il dl 13 agosto 2011, n. 138, conv. con modif. in legge 14 settembre 2011, n. 148, ha poi provveduto ad aggiungere all’art. 8, comma 5, la previsione per la quale «Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».
Sennonché, la Corte costituzionale con la sentenza già citata n. 272 del 6 dicembre 2012, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 1, d.lgs 28 cit., ha dichiarato anche – in via consequenziale – quella delle disposizioni connesse al funzionamento della condizione di procedibilità, quindi anche l’art. 8, comma 5.
Infine, il cd. “decreto del fare” (dl 69/2013, conv. con modif. in legge 98/2013 cit.) come già detto, ha ripristinato la condizione di procedibilità e le previsioni cadute per effetto della pronuncia della Consulta, ripetendo le sanzioni per la mancata partecipazione al procedimento, ma destinando ambiguamente il “primo incontro” delle parti innanzi al mediatore alla verifica della possibilità dell’avvio di un percorso di mediazione e, nel caso positivo, al suo svolgimento. Modifiche queste, che vanno lette unitamente a quelle di cui all’art. 17, comma 5-ter, d.lgs 28 cit., secondo cui «Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione» e all’art. 5, comma 2-bis, secondo cui «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo».
Veniamo ora alle conseguenze della mancata partecipazione, in parte già accennate, rappresentate da sanzioni di diversa natura: la prima, consistente nell’attribuzione al giudice del potere di valutare il comportamento “contumaciale” della parte in mediazione alla stregua di un argomento di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c.; la seconda, consistente nella condanna al versamento di una somma di danaro all’entrata del bilancio dello Stato corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. In entrambi i casi, la sanzione in tanto può essere applicata, in quanto la mancata partecipazione non sia riconducibile a un giustificato motivo.
Da quanto detto emerge chiaramente l’importanza di stabilire cosa debba intendersi per giustificato motivo, atteso che la norma non specifica se debba essere “oggettivo” o “soggettivo”.
Escluso che questo possa consistere nella mera asserita infondatezza della pretesa avversaria e, a maggior ragione, in un personale scetticismo nei confronti dell’istituto della mediazione, possono essere individuate, a titolo di esempio, le seguenti ipotesi:
- “incompetenza” territoriale dell’organismo di mediazione, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.lgs 28 cit., secondo cui la domanda di mediazione deve essere presentata «presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia»;
- proposizione della domanda di mediazione innanzi a un organismo diverso da quello individuato convenzionalmente dalle parti nella clausola di mediazione, ai sensi dell’art. 5, comma 5, ultima parte, d.lgs 28 cit.;
- mancanza o invalida comunicazione alla controparte, imputabile all’organismo o alla parte istante;
- impossibilità oggettiva della parte convocata di partecipare al primo incontro;
- ricezione di una istanza di mediazione dalla quale non si evinca la materia del contendere.
In capo alla parte convocata non sussiste un vero e proprio obbligo di comunicazione, all’organismo o alla parte istante, del motivo della mancata partecipazione, sebbene ragioni di carattere prudenziale suggeriscano di provvedere sempre. In ogni caso, in mancanza di tale comunicazione, la questione è destinata a porsi in sede processuale innanzi al giudice, al quale soltanto spetta la valutazione in ordine alla idoneità del motivo (portato per la prima volta alla sua attenzione) a evitare l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 8, comma 4-bis. Peraltro, anche ove la comunicazione fosse effettuata, comunque il mediatore non avrebbe alcun potere valutativo in tal senso, spettando esso, anche in questo caso, al giudice.
Ai fini dell’avveramento della condizione di procedibilità, occorre tenere conto, peraltro, di quanto disposto dal citato art. 5, comma 2-bis, secondo cui «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo».
Ora, il “mancato accordo” costituisce ipotesi distinta dalla mancata partecipazione.
Esso può derivare anche da un rifiuto delle parti comparse di procedere oltre e, quindi, di avviare la vera e propria mediazione per ragioni “di merito”.
Tali ragioni che, come è agevole immaginare, possono essere molto diversificate e varie, per comodità di sintesi possono essere distinte in:
a) ragioni attinenti alla funzionalità e/o efficienza dell’organismo di mediazione adito o alla serietà, imparzialità, competenza del mediatore designato o alla idoneità dei luoghi della mediazione o infine o a mere esigenze di opportunità;
b) ragioni attinenti alla fondatezza o no della pretesa.
Per un verso, il “primo incontro” non è destinato di per sé all’immediato svolgimento dell’attività di mediazione, per un altro, non è escluso che, con il consenso delle parti, si possa già in tale sede iniziare il percorso di mediazione in senso stretto. Ragionando in senso troppo rigido, infatti, si rischierebbe di ridurre il “primo incontro” ad una inutile farsa, là dove, invece, sia possibile già avviare la sessione di ascolto e tentare di ripristinare il canale di comunicazione ormai venuto meno. Il che non significa che, in presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, non si possa rinviare l’incontro al fine di consentire a tutti di partecipare.
La comparizione personale delle parti di conseguenza è estremamente opportuna, come è opportuno che, tra le previsioni facoltative del regolamento di procedura, figuri quella secondo cui «il mediatore deve in ogni caso convocare personalmente le parti», ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. a), dm 180/2010.
Non pare, invece, che vi sia un obbligo in tal senso, né ai fini dell’osservanza della condizione di procedibilità, né ai fini dell’effettività della mediazione. La questione, però, è dibattuta.
In base a un rigoroso orientamento giurisprudenziale, il “filtro” di accesso non può dirsi osservato se le parti non siano comparse personalmente innanzi al mediatore e questi non abbia verificato effettivamente se vi siano margini per l’instaurazione di un percorso conciliativo. La presenza dei soli difensori al “primo incontro” di mediazione, secondo questa giurisprudenza, non sarebbe idonea e sufficiente.
Una volta concluso il “primo incontro”, il suo esito deve essere riportato in un apposito verbale, che attesterà, volta a volta, la mancata comparizione della parte convocata, il mancato raggiungimento di un accordo sulla prosecuzione del procedimento, il perfezionamento di un’intesa in ordine all’avvio della mediazione.
Le risultanze del verbale, potranno rilevare, rispettivamente, in sede processuale ai fini della valutazione da parte del giudice delle ragioni della mancata partecipazione della parte al procedimento di mediazione e della eventuale applicazione delle sanzioni di cui all’art. 8, comma 4-bis, d.lgs 28/2010; della prova dell’avvenuto espletamento della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, comma 2-bis, d.lgs 28 cit.; della individuazione del momento conclusivo del “primo incontro” e dell’inizio delle fasi successive, facendo scaturire l’obbligo in capo alle parti di corrispondere le somme dovute a titolo di indennità di mediazione.
Segue. La nomina del mediatore, del co-mediatore e dell’esperto
Il momento della designazione del mediatore è estremamente delicato, poiché su di esso l’organismo di mediazione gioca molta della propria credibilità e affidabilità. Ai sensi dell’art. 3, comma 2, d.lgs 28/2010, il regolamento di procedura deve in ogni caso garantire modalità di nomina che ne assicurino l’imparzialità, l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico, la competenza.
L’art. 7, comma 5, lett. e), dm 180/2010, come modif. dal dm 145/2011, stabilisce che il regolamento di procedura debba contenere «criteri abili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta».
Ad ogni modo, ciascun organismo può prevedere, ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. d) ed e), «la formazione di separati elenchi dei mediatori suddivisi per specializzazioni in materie giuridiche» e «che la mediazione svolta dall’organismo medesimo è limitata a specifiche materie, chiaramente individuate» (scelta che, sul piano della concorrenza e del mercato, può produrre effetti molto positivi per l’ente di mediazione, poiché sintomatica della sua serietà e della sua competenza).
Con riferimento alla tipologia di controversie in parola, tuttavia, appare molto difficile che il mediatore possegga tutti i requisiti necessari per la più efficiente e competente assistenza delle parti, così che sovente la presenza di un co-mediatore può rivelarsi particolarmente efficace anche in vista di una gestione multi-prospettica della vicenda sostanziale che non sostituisce il mediatore originariamente designato, ma gli si affianca, agevolandolo nella attività di assistenza delle parti.
Nella maggior parte dei casi, peraltro, si farà ricorso alla perizia di un esperto che rediga una relazione tecnica in grado di facilitare sia gli sforzi delle parti di individuare il punto di equilibrio dei rispettivi interessi e posizioni, sia l’opera del mediatore nella formulazione della proposta conciliativa.
Le parti non sono certamente obbligate, né il mediatore è titolare di alcun potere discrezionale in tal senso, come emerge dall’art. 8, comma 4, prima parte, d.lgs 28 cit. («Quando non può procedere ai sensi del comma 1, ultimo periodo, il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali»).
Tuttavia, è ben verosimile che ciò accada proprio per il peculiare oggetto delle controversie in materia di responsabilità sanitaria e medica, spesso ruotanti attorno a questioni rispetto alle quali il parere di un tecnico può essere risolutivo.
Il problema, semmai, riguarda l’utilizzabilità in sede processuale di tale parere in caso di fallimento del percorso di mediazione. Ora, mentre questa possibilità, con riferimento alla relazione tecnica del Ctu, è espressamente prevista dall’art. 696-bisc.p.c. nella parte in cui rinvia all’art. 698 c.p.c., nella mediazione parrebbe impedita dalla cogenza del principio di riservatezza “esterna” e, se non impedita, fortemente limitata nella sua efficacia, potendo essere valutato quel parere tecnico, come innanzi accennato, tutt’al più alla stregua di una prova atipica.
Segue. La cd. mediazione delegata
Nulla esclude, ad esempio, che il fallimento del tentativo preliminare al processo sia seguito da un accordo conciliativo in sede giudiziale o anche dinanzi ad un organismo di mediazione adito su ordine del giudice (più raramente su iniziativa delle parti), perché ciò che inizialmente non sembrava conveniente può diventarlo in seguito.
Da questo punto di vista, il giudice gioca un ruolo di enorme rilevanza soprattutto nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria e medica, dove è piuttosto frequente che la struttura sanitaria, affidandosi a valutazioni interne e preliminari circa l’assenza di una responsabilità propria e/o del medico, non partecipi al procedimento (rectius, al “primo incontro”) o, pur partecipando, si rifiuti di intraprendere un percorso collaborativo, rimettendo l’iniziativa della instaurazione del giudizio al soggetto danneggiato.
Orbene, a sua disposizione il giudice ha un armamentario piuttosto ricco e potenzialmente molto efficace, che spazia dalla cd. mediazione delegata, al tentativo di conciliazione ex artt. 185 e 185-bis c.p.c., alla possibilità di adottare modelli “misti” in osservanza di prassi consolidate.
Invero, l’ordinamento italiano offre una molteplicità di modelli, che riconoscono al giudice, a vario titolo e con diverse declinazioni, il potere di “intervenire” nell’ambito del percorso conciliativo.
È, infatti, possibile distinguere tra: a) conciliazione giudiziale in sede contenziosa; b) conciliazione delegata; c) conciliazione giudiziale in sede non contenziosa; d) mediazione delegata (o demandata o “sollecitata”) e, dopo il 2013, “disposta” o “ordinata”.
Nel primo e nel terzo caso, il giudice «tenta» o addirittura «provoca» la conciliazione delle parti.
Nel secondo e nel quarto caso, il giudice si limita ad individuare un altro soggetto al quale affidare il compito di tentare la conciliazione o comunque innanzi al quale sperimentare la via mediativa.
Nella mediazione delegata la valutazione è effettuata, eventualmente «anche in sede di giudizio di appello», sulla base dei parametri indicati dall’art. 5, comma 2, d.lgs 28 cit., consistenti nella «natura della causa», nello «stato dell’istruzione» e nel «comportamento delle parti».
Parametri questi, che possono anche sovrapporsi a quelli di cui all’art. 185-bis c.p.c. e che il giudice deve prendere in considerazione nel momento in cui ritenga la controversia ormai matura (non per essere decisa, bensì) per essere avviata su un percorso conciliativo o comunque, collaborativo e, dunque, si trovi di fronte alla alternativa se attivare uno strumento (la mediazione delegata) oppure l’altro (la conciliazione giudiziale).
La previsione espressa dei tre criteri appena menzionati, non esclude affatto che, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 2, d.lgs 28 cit., si possano prendere in considerazione anche altre circostanze («tutte le circostanze del caso», secondo l’art. 5, comma 1, direttiva 2008/52/CE), quali, ad esempio, la tipologia del rapporto che lega le parti. Come anche non esclude la possibilità di disporre la mediazione in corso di causa alla concomitante presenza degli elementi contemplati dall’art. 185-bis c.p.c..
La scelta per l’accertamento tecnico preventivo e la ratio del “filtro”
In alternativa, il danneggiato può scegliere di far ricorso allo strumento alternativo dell’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c.. Uno strumento che, come la mediazione di cui al d.lgs 28/2010, costituisce una condizione di procedibilità dell’azione di risarcimento dei danni nella materia della responsabilità sanitaria e medica.
Il principale vantaggio offerto dall’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa si dovrebbe apprezzare sul piano istruttorio. In caso di naufragio del tentativo di conciliazione, la relazione del consulente, nominato dal giudice e non designato dall’organismo di mediazione o individuato dalle parti, può essere acquisita nel successivo eventuale processo.
Anche prima della riforma si faceva utilizzo di questo strumento in materia di responsabilità sanitaria e medica, ma in via facoltativa e, comunque, questo non avrebbe comportato necessariamente la possibilità di assorbire il procedimento di mediazione (olim, obbligatorio ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs 28 cit. nella suddetta materia), perché il punto era piuttosto controverso in giurisprudenza. Sta di fatto che il vantaggio cui si è fatto cenno non era sconosciuto alle parti, che avrebbero potuto intraprendere la via dell’art. 696-bis c.p.c. (e poi quella della mediazione) proprio per godere di esso nel caso di mancato raggiungimento di un accordo conciliativo.
Con la previsione dell’obbligatorietà del “filtro” questa utilità è stata confermata e rafforzata.
Per di più il legislatore ha anche stabilito un necessario raccordo tra il procedimento in parola e il successivo processo, là dove ha imposto che quest’ultimo si svolga secondo le forme del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c..
Il raccordo non è casuale. Il rito sommario, infatti, anche se a cognizione piena secondo l’opinione prevalente, è comunque semplificato ed è destinato alle controversie che non presentino particolare complessità o che non richiedano una istruttoria molto approfondita.
Lo svolgimento dell’accertamento tecnico in una fase anteriore al giudizio e la sua possibile acquisizione agli atti del processo a seguito del mancato raggiungimento dell’accordo di conciliazione, consentono di snellire di molto i tempi della trattazione e della decisione, che, dunque, non hanno bisogno di essere assoggettate al modello del rito ordinario di cognizione regolato dagli artt. 163 ss. c.p.c..
Va qui precisato, in via preliminare, che l’istituto di cui si va discorrendo vive di una “doppia anima”, poiché svolge tanto una funzione istruttoria, quanto una conciliativa, anche se quest’ultima sembra preponderante rispetto alla prima.
Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo e v’è l’agevolazione sul piano fiscale, consistente nell’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro, che rappresenta un incentivo alla conciliazione.
Nella sua ordinaria applicazione il giudice è chiamato a stabilire, in base ad un giudizio prognostico e probabilistico, se, in base alla fattispecie prospettata, la nomina di un consulente tecnico in via preventiva possa servire a dirimere la controversia sul piano conciliativo.
Ad ogni modo, resta il fatto che l’istituto, di “giudiziale” presenta poco, poiché a tentare la conciliazione non è il giudice, bensì il consulente ed il giudice interviene solo nel momento della nomina del consulente stesso e del conferimento di efficacia esecutiva del verbale di conciliazione. Ne consegue che lo strumento doveva e deve continuare ad essere inquadrato più propriamente tra i rimedi alternativi al processo per la soluzione della controversia.
Segue. Il ricorso introduttivo e la competenza
Ai sensi dell’art. 8, comma 1, legge 24/2017, «Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente». Il comma 2, inoltre, dispone che «La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento […]».
Da queste disposizioni si evince quanto segue.
In primo luogo, il procedimento deve svolgersi innanzi al “giudice civile”. Ciò dovrebbe comportare la sua inapplicabilità tutte le volte in cui l’azione civile sia stata esercitata in sede penale, come del resto stabilito per la mediazione dall’art. 5, comma 4, lett. g), d.lgs 28 cit. (e per la negoziazione assistita dall’art. 3, dl 132 cit.).
In secondo luogo, l’atto introduttivo deve rivestire la forma del “ricorso” e va “presentato”. A questo proposito, l’art. 696-bis c.p.c. nulla dispone; ciononostante, oltre che all’art. 8, comma 1, legge 24 cit., si può fare riferimento anche all’art. 693 c.p.c., che, pur non essendo richiamato espressamente, pare perfettamente coerente proprio nella parte in cui dispone che «L’istanza si propone con ricorso».
Non è richiesta l’allegazione del periculum in mora (come, peraltro, è confermato dal comma 1 dell’art. 696-bis, prima parte: «L’espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 696»), ma occorre indicare il fumus boni iuris (nonostante non si tratti di misura cautelare), sia per facilitare i termini della discussione in vista della eventuale conciliazione, sia per individuare la situazione sostanziale in relazione alla quale il giudice è chiamato a valutare la rilevanza della prova e, di conseguenza, l’esistenza della situazione stessa ai fini dell’interruzione della prescrizione, pur essendo soltanto eventuale il giudizio di merito.
In terzo luogo, l’istanza deve essere proposta “al giudice competente”; altra specificazione non v’è. In base al comma 3 dell’art. 696 c.p.c., cui fa rinvio il comma 1 dell’art. 696-bis c.p.c., il giudice competente dovrebbe essere il presidente del tribunale oppure il giudice di pace.
Sennonché, il fatto che l’art. 8, comma 3, legge 24 cit. disponga che il successivo processo instaurato a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione debba obbligatoriamente seguire le forme di cui agli art. 702-bis ss. c.p.c., che a loro volta possono applicarsi soltanto innanzi al tribunale in composizione monocratica, potrebbe indurre a dubitare che il giudice di pace abbia competenza in materia (vds., sul punto, anche § 12).
Né può sostenersi che ci si trovi al cospetto di una nuova ipotesi di operatività del procedimento sommario di cognizione ex lege innanzi al giudice di pace, alla stregua di quanto previsto dal d. lgs. 150/2011, non soltanto perché nel caso in esame il rinvio agli art. 702-bis ss. c.p.c. è integrale, ma anche perché manca una esplicita attribuzione ex lege.
Per quanto riguarda la competenza territoriale, deve condividersi la posizione di chi ha correttamente osservato che la definitiva e generalizzata qualificazione della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale, dovrebbe comportare, in ogni caso, l’applicabilità del criterio di competenza esclusivo del “consumatore”.
Dunque, non potrebbe essere più ripetuta la distinzione operata in precedenza dalla giurisprudenza tra responsabilità della struttura sanitaria pubblica (per la quale si escludeva che il paziente potesse essere considerato alla stregua di un “consumatore”), e responsabilità della struttura sanitaria privata non convenzionata (per la quale, al contrario, l’unico foro applicabile era appunto quello riservato all’utente in quanto “consumatore”). Nulla cambia, invece, per le controversie tra medico e paziente, il cui foro continua ad essere rappresentato dal luogo di residenza del paziente.
Segue. Il procedimento e l’attività del consulente tecnico
L’art. 696-bis c.p.c. non detta tutte le norme per lo svolgimento del procedimento, ma si avvale del rinvio ad altre disposizioni, che, a loro volta, rinviano ad altre ancora, attraverso un faticoso gioco di incastri. Così, infatti, il comma 1 rimanda all’art. 696, comma 3, che rimanda agli art. 694 e 695, «in quanto applicabili», mentre l’ultimo comma richiama gli art. 191-197 c.p.c., «in quanto compatibili».
Pertanto, proposta l’istanza, il giudice designato fissa con decreto l’udienza e stabilisce il termine perentorio per la notificazione del decreto e del ricorso (attività questa, che produce l’effetto dell’interruzione della prescrizione, come, del resto, stabilito anche dall’art. 445-bis c.p.c., comma 3, c.p.c.).
Il giudice, assunte, quando occorre, sommarie informazioni, provvede in contraddittorio tra le parti, nominando il consulente tecnico con ordinanza non impugnabile, formulando i quesiti e fissando l’udienza nella quale il consulente deve comparire. L’ordinanza, contenente l’invito a comparire all’udienza fissata dal giudice, è notificata a cura del cancelliere al consulente tecnico. All’udienza il consulente presta giuramento e il giudice fissa la data per l’inizio delle operazioni peritali. Possono essere nominati più consulenti soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone.
Valgono, inoltre, le disposizioni in tema di astensione e ricusazione (con ulteriore indiretto rinvio agli art. 63 e 51 c.p.c., anche se elementi in tal senso possono trarsi anche dall’art. 15 legge 24 cit.), di rinnovazione delle indagini e di sostituzione del consulente, di richiesta di informazioni e chiarimenti da quest’ultimo alle parti ed eventualmente a terzi, di fissazione del termine per il deposito della relazione, ed in generale in tema di tutela del contraddittorio delle parti, comprese quelle relative alla possibilità di nominare consulenti di parte.
Non è chiaro se, nelle controversie risarcitorie in questione, l’istanza possa essere rigettata. Per un verso, sembrerebbe doversi dare risposta affermativa almeno tutte le volte in cui difetti un presupposto processuale oppure l’istanza sia del tutto inammissibile oppure ancora il contenuto della stessa sia palesemente abnorme. Per un altro verso, sembrerebbe doversi dare risposta negativa, poiché l’esperimento del procedimento costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, quindi, ad essa deve necessariamente darsi corso.
A proposito della figura del consulente, va osservato quanto segue.
Con riferimento alla nomina, che – a differenza della nomina dell’esperto in mediazione – avviene, come si è detto, attraverso un provvedimento del giudice. vengono in rilievo gli artt. 8, comma 4, e 15 legge 24 cit. Quest’ultimo, in particolare, dispone che nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi.
La scelta deve avvenire tra gli iscritti negli albi dei consulenti di cui all’art 13 disp. att. c.p.c., e dei periti di cui all’art. 67 disp. att. c.p.c., i quali albi devono contenere l’indicazione e la documentazione attestante le specializzazioni degli iscritti esperti in medicina e devono essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, al fine di garantire, oltre a quella medico-legale, un’idonea e adeguata rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche riferite a tutte le professioni sanitarie, tra i quali scegliere per la nomina tenendo conto della disciplina interessata nel procedimento.
In particolare, poi, l’art. 15 dispone anche che i consulenti tecnici d’ufficio da nominare nell’ambito del procedimento ex art. 696-bis c.p.c., devono essere «in possesso di adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi». Tale previsione è estremamente opportuna perché tende ad assicurare che il consulente non sia costretto ad improvvisare, ma sia, al contrario, a conoscenza delle tecniche necessarie per condurre nella maniera più efficace il tentativo di conciliazione. Quest’ultimo, infatti, è una cosa seria e finalmente di ciò ha preso atto il legislatore anche rispetto ad ambiti diversi dalla mediazione.
Infine, l’ultimo comma dell’art. 15 stabilisce che «l’incarico è conferito al collegio». Non sempre, però, la nomina di un collegio è opportuna, anzi a volte può essere più che sufficiente limitarsi a nominare un singolo tecnico. Sanzioni per l’inosservanza di questo precetto, del resto, non ve ne sono.
Con riguardo alla attività del consulente, va evidenziato che il consulente non è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto dedotto, poiché tale accertamento, inteso nel senso di attività cognitiva relativa alla triade norma-fatto-effetto, spetta soltanto al giudice. Pertanto, il consulente, in primo luogo, deve procedere alla attività cognitivo-valutativa tecnica che gli è propria e, in secondo luogo, «ove possibile», deve tentare la conciliazione (la quale non costituisce attività di accertamento).
Il consulente è per sua natura un esperto, dotato delle conoscenze specialistiche necessarie alla soluzione delle questioni tecniche rilevanti ai fini della definizione della controversia che in questa sede ha anche la funzione di mediatore chiamato ad assistere le parti nella ricerca di una soluzione consensuale della controversia, cui è affidato il compito di formulare una proposta conciliativa soltanto ove le parti lo richiedano espressamente in caso di mancato raggiungimento di un accordo e, comunque, in via residuale.
Tuttavia, resta il fatto che:
– il consulente è chiamato a svolgere accertamenti ed indagini tecniche e a compiere valutazioni in merito ai fatti controversi che certamente non rientrano tra i compiti del mediatore. Inoltre, nella mediazione, ai fini della soluzione del conflitto, vengono in rilievo non tanto le pretese giuridiche prospettate dalle parti, ma gli interessi concreti ad esse sottostanti; il mediatore assiste le parti nel far emergere i reali bisogni sottesi alle rispettive posizioni e nel perseguire una soluzione conciliativa conveniente ad entrambe le parti, che assicuri la reciproca soddisfazione dei contrapposti interessi;
– al mediatore è imposto un generale obbligo di riservatezza che rappresenta un requisito qualificante la sua attività: generale, in quanto attinente sia al rapporto tra mediatore e parti (cd. riservatezza interna), sia al rapporto del mediatore con i soggetti estranei alla procedura (cd. riservatezza esterna) (vds. l’art. 9, d. lgs 28 cit.). Nessuna garanzia di riservatezza assiste, invece, il procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c.;
– inoltre, mentre a norma dell’art. 10, comma 1, d. lgs. 28 cit. le dichiarazioni o informazioni coperte dalla riservatezza sono inutilizzabili nel giudizio successivo all’insuccesso del tentativo di conciliazione ed avente il medesimo oggetto, salvo il consenso della parte che quelle dichiarazioni e informazioni ha reso; al contrario, gli esiti della consulenza tecnica espletata in sede preventiva, ove il tentativo di conciliazione fallisca e le parti non pervengano ad una composizione amichevole della lite, possono essere utilizzati nel successivo giudizio di merito.
Segue. L’obbligo di partecipazione al procedimento e le sanzioni in caso di inosservanza
L’art. 8, comma 4, legge 24 cit. impone la necessaria partecipazione delle parti al procedimento di consulenza tecnica preventiva.
In particolare, le sanzioni per la mancata partecipazione sono di diverso tipo e sono applicate all’esito del successivo giudizio di merito:
a) in caso di mancata partecipazione delle parti:
- condanna al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio;
- condanna al pagamento di una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione;
b) in caso di mancata formulazione dell’offerta di risarcimento del danno da parte dell’impresa di assicurazione ovvero di mancata comunicazione dei motivi contrari.
- In ipotesi di sentenza favorevole al danneggiato, trasmissione della copia della sentenza da parte del giudice all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.
Sotto questo aspetto, la consulenza tecnica preventiva si avvicina alla mediazione, poiché, come si è ricordato, anche in quella sede la mancata partecipazione determina conseguenze negative. Sennonché, si tratta di conseguenze diverse e legate a presupposti non del tutto coincidenti.
A proposito dell’obbligo di partecipazione, la giurisprudenza si è divisa sull’esatta individuazione dei soggetti sui quali tale obbligo incombe.
Un primo orientamento sostiene che siano parti necessarie tutti i soggetti che il ricorrente prospetti come obbligati, compreso l’esercente la professione sanitaria autore della condotta illecita, nonché quelli che possono partecipare all’eventuale giudizio di merito. Il procedimento all’accertamento tecnico preventivo consente di perseguire più efficacemente la finalità conciliativa rispetto al procedimento di mediazione di cui al d.lgs 28/2010, nel quale «le compagnie di assicurazione raramente vengono coinvolte». Nel procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c., infatti, «il danneggiato sarà indotto a convenire […] tutti i potenziali soggetti passivi della azione risarcitoria dalla disciplina in tema di spese che è contenuta nel comma 4 dell’art. 8».
Un secondo orientamento, invece, afferma che l’individuazione delle parti chiamate a partecipare al procedimento di consulenza tecnica dipende dal tipo di azione di merito – fondata, volta a volta, sull’art. 7 o sull’art. 12 legge cit.– che il danneggiato intende esperire. Tuttavia, fino a quando non verrà approvato il decreto ministeriale di cui all’art. 10, comma 6, legge 24 cit., il danneggiato potrà convenire nel procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c. soltanto la struttura sanitaria o il professionista sanitario.
Ora, tra i due, il primo orientamento è maggiormente in linea con la finalità dell’istituto in quanto volto ad ampliare il più possibile la platea dei soggetti chiamati a partecipare all’eventuale accordo di conciliazione e a comporre la controversia senza ulteriori strascichi. Tuttavia, il secondo sembra cogliere più precisamente il collegamento del procedimento con il giudizio di merito, poiché, senza contraddire la lettera e la ratio della norma, coniuga l’attività tecnico-istruttoria preliminare con l’oggetto del giudizio stesso.
Segue. I possibili esiti del procedimento
Il consulente tecnico, prima di depositare la relazione in cancelleria, tenta, ove possibile, la conciliazione tra le parti.
Si può osservare, a questo proposito, che, nonostante la lettera della legge, il tentativo di conciliazione è soltanto apparentemente facoltativo. Il consulente, in altri termini, deve tentare la conciliazione ove ve ne sia la possibilità, non avendo nessun potere discrezionale in tal senso. Resta semmai da verificare cosa significhi la formula “ove possibile”.
Orbene, l’indagine sulla possibilità dovrebbe tenere conto di due elementi:
- per un verso, la natura della causa (parametro questo, che, come si è visto, non diverge da quello previsto dall’art. 185-bis c.p.c. per la conciliazione giudiziale, e dall’art. 5, comma 2, d.lgs 28 cit.);
- per un altro, il concreto atteggiamento assunto dalle parti prima del deposito della relazione in cancelleria, che potrebbe indurre il consulente a non tentare la conciliazione perché ritenuta del tutto inefficace.
Ad ogni modo, ove la conciliazione venga tentata e riesca, si applicano i commi 2 e 3 dell’art. 696-bis c.p.c.
Pertanto, si forma processo verbale di essa, al quale il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo, ai fini dell’espropriazione e dell’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Inoltre, ai sensi del comma 4, il processo verbale è esente dall’imposta di registro.
Se la conciliazione non riesce, si applica l’art. 8, comma 3, legge 24 cit., secondo cui «la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile».
Al fallimento del tentativo di conciliazione la norma citata equipara l’ipotesi in cui il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso. Anche l’art. 6, comma 1, d.lgs 28 cit. stabilisce che il procedimento di mediazione debba avere una durata massima (di tre mesi, quattro nella versione anteriore alla riforma del 2013); una previsione che sembra poter giustificarsi solo con riferimento alla condizione di procedibilità operante nel modello della mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1-bis (e anche in quello della mediazione “disposta” dal giudice o delegata, di cui all’art. 5, comma 2), la quale, per non incorrere nel sospetto di incostituzionalità, deve necessariamente essere contingentata nei tempi, affinché non rechi un sacrificio di tempo tale da pregiudicare il diritto di azione e da comportare la violazione dell’art. 24, comma 1, Cost.
Premesso che in entrambi i casi l’effettiva durata del procedimento di mediazione non può essere sempre identica, ma è fisiologicamente destinata a variare a causa di fattori quali l’animosità dei litiganti, la pluralità delle parti in contesa, la complessità delle questioni tecniche da accertare e così via, la differenza è che, solo con riferimento alla consulenza tecnica preventiva, il termine, oltre ad essere doppio, è definito dalla legge come perentorio; questo pone a domandarsi quali siano le conseguenze della sua inosservanza e in quale misura divergano da quelle di cui all’art. 6, comma 1, cit. in materia di mediazione.
Con riferimento alla mediazione si è ipotizzato che, in astratto, il protrarsi del procedimento di mediazione per più di tre mesi dal deposito dell’istanza di mediazione presso l’organismo “competente” prescelto si rifletta sulla validità degli atti compiuti ovvero sulla applicabilità della disciplina contenuta nel d.lgs 28/2010, ovvero ancora sulla sola disciplina della condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Si è concluso che soltanto l’ultima delle tre conseguenze prospettate presenti elementi di ragionevolezza e che, dunque, le ripercussioni della eventuale prosecuzione del procedimento di mediazione dopo la scadenza del termine di tre mesi previsto dal comma 1 dell’art. 6 riguardino il meccanismo che regola la condizione di procedibilità, nel senso di ritenere espletata la condizione una volta decorso il termine e le parti libere di adire la via giudiziale.
Un discorso parzialmente differente deve essere svolto per la consulenza tecnica preventiva. L’art. 8, comma 3, stabilisce che la domanda è “procedibile” quando è depositato il ricorso per l’instaurazione del giudizio di merito entro il termine di 90 giorni dalla scadenza di quello di sei mesi (o dal deposito della relazione peritale); dunque, la procedibilità è legata alla tempestiva introduzione della causa, non all’osservanza del termine di sei mesi. In altri termini, anche se il procedimento non si è concluso entro tale termine, non significa di per sé che non possa continuare. Quello che determina realmente l’improcedibilità è il mancato rispetto del termine di 90 giorni che decorrono da un dies a quo variabile.
Segue. La necessità di instaurare il processo secondo il rito sommario di cognizione ex artt. 702-bis ss. c.p.c.
La ratio del necessario raccordo tra consulenza tecnica preventiva e rito sommario di cognizione ex artt. 702 bis ss. c.p.c. è stata già messa in evidenza. A quanto detto va aggiunto che il giudice chiamato ad occuparsi del merito della causa è quello stesso che ha trattato il procedimento preventivo, il quale, una volta adito, deve fissare l’udienza di comparizione delle parti.
Si possono ora indicare alcuni aspetti critici di questo meccanismo.
La proposizione della domanda giudiziale deve avvenire entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi stabilito per la durata del procedimento.
Soltanto in tal caso, secondo l’art. 8, comma 3, legge 24 cit., sono fatti salvi gli effetti della domanda:
- senz’altro la interruzione della prescrizione;
- l’effetto sospensivo di cui all’art. 2945, comma 2 cc.
L’instaurazione del giudizio di merito, peraltro, può avvenire in maniera errata. In relazione a queste ipotesi ci si deve pure domandare se valga la salvezza degli effetti della domanda.
Indipendentemente dal caso in cui il deposito del ricorso giudiziale avvenga oltre il termine dei novanta giorni (caso le cui conseguenze sono già stabilite dalla legge e consistono nella perdita degli effetti), vengono in rilievo l’ipotesi di instaurazione del giudizio secondo il rito ordinario e quella in cui la domanda sia proposta innanzi al giudice di pace.
Con riferimento alla prima, la soluzione preferibile è quella che porta a considerare idonea a produrre la salvezza degli effetti della domanda anche la citazione notificata (erroneamente, al posto del deposito del ricorso), purché depositata entro il limite dei novanta giorni al fine di rispettare la lettera della norma, ma soprattutto in applicazione di un noto orientamento giurisprudenziale che afferma l’equivalenza della citazione al ricorso e viceversa, tutte le volte in cui siano comunque rispettati i termini che la legge pone per lo svolgimento delle attività che, in base al rito di volta in volta previsto, sono necessarie ai fini dell’instaurazione del processo (di primo grado o di appello) o della sua riassunzione.
In ogni caso, resterebbe fermo il potere del giudice adito con le forme del rito ordinario, di disporre la conversione ai sensi dell’art. 183-bis c.p.c..
Con riferimento alla seconda, deve ritenersi che il giudice di pace non possa essere adito con il rito sommario di cognizione, poiché il combinato degli art. 702-bis, comma 1 e 702-ter, comma 1 c.p.c., che riservano tale rito al tribunale in composizione monocratica, non lo consentono; né, peraltro, possono ritenersi applicabili le disposizioni di cui al d.lgs 150/2011 che pure prevedono l’applicabilità del rito sommario innanzi al giudice di pace, in quanto si tratta di ipotesi in cui, accanto all’utilizzo del rito, è anche prevista espressamente la competenza del giudice di pace.
Invero, il dubbio innanzi prospettato circa l’insussistenza della competenza del giudice di pace (vds. supra § 8), potrebbe essere superato soltanto se si affermasse che quella dell’art. 8, comma 3, legge 24 cit., nella parte in cui rinvia agli artt. 702-bisss. c.p.c., costituisce una norma sul rito, non sulla competenza; ne discenderebbe la possibilità di ritenere, sia pure con una accettabile forzatura della lettera della norma, che l’instaurazione del giudizio debba avvenire in tale caso con atto di citazione, al fine della salvezza degli effetti della domanda.
Segue. L’acquisizione in giudizio della relazione tecnica
Una volta instaurato correttamente il processo, «ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito» (art. 696-bis, comma 5, c.p.c.).
Stando al tenore letterale della norma, occorrerebbe una esplicita istanza di parte, che, quindi, svolge la funzione di veicolo necessario e sufficiente per l’ingresso dei risultati della consulenza nel processo.
La disposizione collide con quanto disposto dall’art. 698, commi 2 e 3 c.p.c., secondo cui, rispettivamente, «l’assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza, né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito» e «i processi verbali delle prove non possono essere prodotti, né richiamati, né riprodotti in copia nel giudizio di merito, prima che i mezzi di prova siano stati dichiarati ammissibili nel giudizio stesso». Tali disposizioni non sono richiamate dall’art. 696-bis c.p.c.; ciononostante, secondo la giurisprudenza, esse sono applicabili.
Tale orientamento non dovrebbe potere essere ripetuto pedissequamente nella materia della responsabilità sanitaria. Infatti, se si affermasse che l’istanza di acquisizione in giudizio della relazione peritale costituisca mero atto di impulso, necessario sì (dal momento che, in mancanza, l’acquisizione non potrebbe avvenire in maniera automatica), ma non sufficiente a ritenere utilizzabile la relazione prima che il giudice ne valuti l’ammissibilità, si finirebbe per svalutare del tutto la ratio della riforma, che, invece, fa leva proprio sul vantaggio istruttorio costituito dalla trasponibilità in sede giudiziale dei risultati tecnici del procedimento preventivo.
Infine, va sottolineato che il mancato richiamo dell’art. 200 c.p.c. relativo all’ipotesi di fallimento del tentativo di conciliazione, comporta che le dichiarazioni delle parti riportate dal consulente nella relazione non possano essere valutate dal giudice a norma dell’art. 116, comma 2 c.p.c.
Segue. L’inosservanza della condizione di procedibilità: conseguenze
Ai sensi dell’art. 8, comma 2, legge 24 cit., «L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento».
Facendo ricorso ad una tecnica già sperimentata in altri (e analoghi) contesti (in particolare, quello di cui all’art. 445-bis c.p.c., in materia di controversie di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222), il legislatore disciplina il caso in cui venga proposta la domanda giudiziale senza il previo esperimento del “filtro” di procedibilità. Pertanto, instaurato il processo senza l’osservanza della condizione (di nessuna delle due condizioni stabilite come obbligatorie) e rilevata d’ufficio (o eccepita dal convenuto) l’omissione entro la prima udienza, il giudice si trova di fronte alla necessità di assegnare alle parti il termine di quindici giorni – che, si badi, non è qualificato come perentorio [91] – per lo svolgimento dell’attività omessa. Sennonché, il meccanismo è riferito normativamente al solo procedimento di consulenza tecnica preventiva; il che sembra il frutto di una svista, dal momento che qui l’esperimento del procedimento non è previsto in via esclusiva, bensì in alternativa al quello di mediazione. Dunque, andando oltre la lettera della legge, si dovrebbe correttamente affermare che il termine possa alternativamente essere assegnato per la presentazione dell’istanza exart. 696-bis c.p.c. innanzi allo stesso giudice oppure per la presentazione dell’istanza di mediazione ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs 28/2010 innanzi ad un organismo di mediazione territorialmente “competente”. Altrimenti opinando, l’obbligo di esperimento del procedimento di mediazione rischierebbe di essere sistematicamente aggirato.
Invece, nell’ipotesi in cui il “filtro” sia stato già avviato, ma non si sia concluso alla data della prima udienza, l’invito del giudice rivolto alle parti per il suo completamento non potrebbe che riguardare il procedimento già pendente in quanto già scelto dall’istante. Una volta concluso, evidentemente senza successo, il tentativo di conciliazione, il processo può riprendere il suo iter. Non c’è alcuna attività di riassunzione da compiere perché il processo non viene né interrotto né sospeso a seguito del rilievo dell’omissione. A ben vedere, anche in questo caso ci si trova al cospetto di una svista del legislatore, che ha dimenticato di aggiungere che, nell’assegnare il termine alle parti, deve anche indicare un’udienza successiva alla prima nella quale verificare se la condizione è stata espletata oppure no. Orbene, sembra ragionevole ritenere che, in analogia con quanto disposto dall’art. 5, comma 1-bis cit., egli debba comunque indicare tale udienza, con la sola accortezza di individuare una data che, a seconda dei casi, sia superiore ai tre mesi (nel caso in cui il “filtro” prescelto sia la mediazione) oppure superiore ai sei mesi (nel caso in cui il “filtro” prescelto sia la consulenza tecnica preventiva).
Una volta divenuta procedibile la domanda, deve ritenersi che, essendo già stato promosso il processo secondo determinate forme (quelle del rito ordinario di cognizione ovvero quelle del rito sommario di cognizione), con queste stesse forme esso dovrà continuare. La regola della proposizione della causa secondo le disposizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., infatti, vale soltanto nell’ipotesi fisiologica in cui si sia scelto e sia stato preliminarmente esperito l’accertamento tecnico preventivo ex artt. 696-bis ss. c.p.c.
Segue. Gli obblighi di comunicazione all’esercente la professione sanitaria
A conclusione di questa prima parte del presente lavoro, va richiamata l’attenzione su una disposizione di non trascurabile rilevanza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1, legge 24 cit., le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione hanno l’obbligo di comunicare all’esercente la professione sanitaria sia l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte, sia l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio.
Il contenuto della disposizione, in primo luogo, incide sul problema della individuazione dei soggetti chiamati a partecipare alla procedura stragiudiziale (sia essa la mediazione ovvero la consulenza tecnica preventiva); in secondo luogo, porta ad interrogarsi circa la natura e gli effetti dell’invito rivolto al professionista; in terzo luogo, riguarda i presupposti di ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa, di cui all’art. 9.
Sotto il primo profilo, valga quanto già innanzi detto (§ 10), cui si può aggiungere che la previsione di un mero invito alla partecipazione dovrebbe confermare che la partecipazione più ampia è un fatto di opportunità e non di necessità. In mancanza, si ricorderà, l’azione di rivalsa può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento (art. 9, comma 2, legge 24 cit.). Inoltre, la transazione raggiunta in assenza del professionista non è a lui opponibile nello stesso giudizio di rivalsa (art. 9, comma 4, legge 24 cit.).
Sotto il secondo profilo, non sembra sussistano dubbi sul fatto che l’invito valga come mera denuntiatio litis, non come chiamata in causa con proposizione di apposita domanda.
Sotto il terzo profilo, l’esercizio tempestivo e completo dell’invito rivolto al professionista rientra tra i presupposti per l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’art. 9. L’indicazione di precise forme per l’inoltro dell’invito non dovrebbe escludere che, ove il professionista partecipi ugualmente al procedimento o si costituisca in giudizio, l’eventuale inosservanza di esse venga sanata.