Premessa
Con una recentissima sentenza (Cassazione, Sezione VI, sentenza dell’11.02.2020, depositata il 7.04.2020, n. 11626), la Cassazione si è pronunciata in merito alla questione dell’applicabilità della disciplina prevista dal Decreto Lgs. 231/2001 agli enti che non abbiano sede sul territorio dello Stato.
La questione non è di poco conto se si considera l’enorme possibilità di relazioni tra società di diritto e italiano e i cosiddetti enti stranieri, ossia quegli enti di diritto straniero che non hanno sede in Italia.
La novità consiste infatti nel principio di diritto espresso per la prima volta dall’entrata in vigore del d.lgs. 231/2001 secondo cui: “la persona giuridica risponde dell’illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale, commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza, a prescindere dalla sua nazionalità e dal luogo ove essa abbia la sede legale, nonché dall’esistenza o meno, nello Stato di appartenenza, di norme che disciplinino analoga materia, anche con riguardo alla predisposizione e all’efficace attuazione di modelli organizzativi e di gestione atti ad impedire la commissione di reati che siano fonte di responsabilità amministrativa per l’ente stesso”.
Il fatto
Il caso di specie riguardava fatti di corruzione in atti giudiziari a carico di un coadiutore legale della procedura fallimentare di una società per avere ricevuto da altri soggetti, agenti per conto di due società di diritto straniero, una cospicua somma di denaro in cambio del compimento in loro favore di atti contrari ai doveri del suo ufficio. Gli Enti Stranieri venivano parallelamente incolpati del corrispondente illecito amministrativo ex art. 25 del Decreto 231.
La tesi della difesa degli Enti Stranieri
Secondo la tesi difensiva, il Decreto 231 non troverebbe applicazione nei confronti di quelle società prive di una sede operativa in Italia che si limitano a svolgere sul territorio nazionale un’attività occasionale o prettamente formale, in quanto l’illecito amministrativo, pur derivante dalla commissione di un reato presupposto, non si confonde con esso e si realizza al più nel luogo in cui si è verificata la “colpa di organizzazione” dell’ente, ossia nel luogo dove ha sede il suo centro decisionale.
Pertanto, nel caso di specie, essendo l’illecito sia riconducibile ad una società avente il proprio centro gestionale all’estero e nessuna sede in Italia, la condotta illecita non potrà considerarsi consumata sul territorio italiano, con la conseguenza che nessun potere giurisdizionale potrà essere riconosciuto in capo all’Autorità italiana.
La decisione della Cassazione
La Cassazione ha respinto le argomentazioni della parte difensiva principalmente sulla base delle seguenti considerazioni:
- il dato letterale: da un lato, l’art. 1 del Decreto 231, che ne delimita l’ambito soggettivo di applicazione, non pone alcuna distinzione tra gli enti italiani e gli enti stranieri. Al contrario, quando il Legislatore ha voluto dare rilievo alla sede dell’ente, lo ha fatto esplicitamente, come nelle ipotesi di reati commessi all’estero disciplinati dall’art. 4; dall’altro, l’art. 36, attribuendo la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono, non dà alcuna importanza alla sede dell’ente o al luogo in cui si è verificata la lacuna organizzativa e conferma la preferenza della legge per il simultaneus processus;
- la ratio del sistema 231: l’obiettivo della normativa è garantire che tutte le società che operano nel territorio italiano adottino cautele e misure organizzative idonee ad impedire che i soggetti agenti per loro conto pongano in essere condotte in contrasto con la legge penale italiana. Così, al pari del trattamento riservato allo straniero, anche le persone giuridiche straniere operanti nello Stato saranno tenute ad osservare gli obblighi imposti dalla legge italiana, in ossequio ai principi di obbligatorietà e territorialità sanciti rispettivamente dagli artt. 3 e 6 c.p.;
- distorsione della concorrenza: invero, laddove il Decreto 231 non trovasse applicazione nei confronti degli Enti Stranieri privi di sede in Italia, si garantirebbe loro l’impunità per la mancata osservanza degli obblighi di organizzazione in esso previsti, riservandogli così un trattamento di favore a discapito degli Enti Stranieri con sede in Italia e degli enti italiani, che invece sono tenuti ad adottare quelle (onerose) cautele necessarie per ottemperare alle previsioni del Decreto 231.
Pertanto, anche l’Ente Straniero privo di sede in Italia potrà essere giudicato dal giudice italiano e ritenuto responsabile ex D.Lgs. 231/2001, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinino in modo analogo la medesima materia.
Conseguenze
La sentenza segnalata, dunque, conferma e rafforza l’opportunità per le società straniere di adottare modelli organizzativi, quanto meno inerenti alle attività svolte in Italia, idonei a prevenire il rischio di commissione di reati presupposto da parte dei loro apicali o sottoposti.
Responsabilità della holding straniera per il reato commesso nell’ambito della controllata italiana
Infine, occorre tenere a mente che anche laddove la società straniera decidesse di organizzarsi attraverso una controllata con sede in Italia, ciò non la esimerebbe dal dotarsi delle misure organizzative necessarie a prevenire il cd. “rischio 231”. Infatti, sebbene non sia regolata espressamente dal Decreto 231, ormai la giurisprudenza pacificamente ammette la configurabilità di una responsabilità della holding estera anche se il reato presupposto è stato commesso nell’ambito di una società controllata avente sede in Italia, al verificarsi delle seguenti condizioni:
- il reato presupposto è stato commesso da un soggetto appartenente alla società controllata in concorso con un soggetto della controllante (oppure il rappresentante della società controllante viene riconosciuto anche amministratore di fatto della controllata);
- quest’ultimo abbia agito perseguendo anche un interesse proprio della controllante.
Pertanto, l’addebito dell’illecito amministrativo alla società controllata italiana non mette al riparo da una possibile “risalita della responsabilità” la capogruppo, la quale potrà difendersi sul piano soggettivo soltanto dimostrando di aver adottato un modello organizzativo idoneo ed efficace, a prescindere da quello eventualmente implementato dalla sua controllata.